Siamo alla quinta lezione. Quelli che io chiamo “i sopravvissuti” stanno facendo passi da gigante. Sono sopravvissuti alla stanchezza, alla paura, allo scoramento, all’umiliazione (sì, umiliazione) e alla confusione. Di solito c’è una bella percentuale di studenti che si arrendono, per una ragione o per l’altra. Imparare una lingua che non si conosce, a una certa età, prendendo per la prima volta la penna in mano, è un dolore immenso. Lo vedo, il dolore. Spiace ammetterlo, ma lo vedo. Però, vedo anche la voglia di farcela, il desiderio di fare la differenza, i sorrisi e la speranza. E sono questi che ci fanno andare avanti, suppongo.
E poi arriva lei. Quinta lezione. E lo sapevo. E vabbè. Mi spiace sempre che ne arrivino a corso iniziato perché si sentono fuori posto, mentre gli altri vanno avanti. Noi dobbiamo fare del nostro meglio per fargli capire che va bene così; che non è un problema; che tanto ce la faranno e lo sappiamo. Mohamed, il mio collega volontario, mi dice, con la sua fantastica calma e tranquillità che gli invidio tanto, che è arrivata la volta scorsa, quando non c’ero, e che ha difficoltà a tenere la penna in mano. Stasera sono in 3. Senza dircelo, ce li dividiamo. Io sto con lei e Mohamed con i due ragazzi egiziani. Lei è marocchina. Avrà 50 anni circa. Occhi lucidi e il velo, come me. Ci diciamo “Salam Aleykoum” e ci sorridiamo. L’arabo lo conosco un pochino, ma non le voglio parlare in arabo. Voglio che capisca che io so che lei potrà parlare e scrivere bene in italiano. Che sappia che ce la farà. E non “che ce la può fare”, ma che CE LA FARÀ, capisci? La differenza non è poca. Siamo qua per questo, del resto, o no? 🙂
E così, iniziamo la lezione. Partiamo dalle stanghette. Prima la I. Questa è facile da scrivere, ma mica tanto, sai? E, mentre le aggiusto la penna tra le dita, sento i calli e la pelle secca a causa del detersivo. Cucina e fa le pulizie, scoprirò poi. Le faccio una carezza leggera sul dorso, dopo aver stretto le dita impacciate intorno alla Bic e sorrido. Lei mi risponde con un altro sorriso. E poi la guido, a fare la I, mentre le faccio sentire il suono: I, I, I, I, I, I… facciamo tre righe di I assieme, ok? Dai che ce la facciamo. E poi c’è la A. La A non le piace 🙂 La confonde con la E. Ed è allora che viene fuori la mia napoletanità musulmana. La porto alla lavagna e ci mettiamo a fare esercizio assieme; con il pennarello però, che è un po’ più facile. E inizio a mimare le vocali. Con la A urlo di dolore facendo finta di essermi fatta male alla mano. Mohamed e i due ragazzi mi guardano come se fossi impazzita, ma un po’ ci sono abituati. Diciamo che sono abbastanza “scenografica” quando insegno. J E poi arriva la E che diventa un EEEEEEEEEEEEE con una mano che simula il “eccheccavolo!!!”. La I diventa il nitrito di un cavallo che io mimo cavalcando sul posto con i miei 80 chili e tutt’e due ridiamo come delle pazze quando la ripassiamo. La O è l’espressione di stupore con una OOOOOOOO accompagnata dalla boccuccia alla Shirley Temple e le due mani schiaffate belle belle sulle guance. Con la U mi faccio aiutare dalla fantasia e da un UUUUUUU che mima una mano che si scotta. Ride. Mi sa proprio che non se l’aspettava una come me. E così le faccio ripetere tutte le vocali, una dopo l’altra e mischiate. “Dai, facciamolo assieme! A, E, I, O, U! A, E, I, O, U! A, E, I, O, U!” E via, velocemente fino a quando non le inizio a fare i trabocchetti. Salto da una vocale all’altra. La guardo fissa negli occhi, sorridendo, ma decisa e lei prova a seguirmi. Si scoraggia davanti agli errori, vedo una lacrima, ma si riprende subito, sorridendo, non appena le dico: “No, dai, eh? Nessuna depressione, qua! Yalla!! Yalla!! Fammi vedere ‘ste vocali!” E poi, il miracolo: una ad una, me le dice tutte. E’ stupita. Mi guarda incredula. Le ripete a me, a sè stessa, al mondo. La lacrima scende, questa volta, ma io urlo di felicità, assieme a lei e ci abbracciamo fortissimo ridendo sonoramente 🙂 Mohamed e i ragazzi ci guardano sorridendo. Ah, le donne.
La lezione è finita. I ragazzi sono andati via. Lei è rimasta seduta al banco. Sto compilando il registro e non so come dirle che bisogna andare via. Sta scrivendo qualcosa. Oh, mamma… Non so come farle capire che gli esercizi li deve fare a casa, senza offenderla. Sto per alzarmi e dirglielo, ma è in quel momento che mi guarda come faceva Laura, mia figlia, dopo aver finito un puzzle difficile da mostrarmi con triofante orgoglio. Mi fa segno di andare accanto a lei. Mi avvicino. Mi mostra la tessera di Alfabeti. Con il dito mi indica il suo nome sulla tessera e poi se lo punta al petto dicendo: “Anà?” che vuol dire “Io?” in arabo. Le rispondo, “si” senza capire. Ed è allora che mi fa vedere cosa ha fatto. Ha scritto il suo nome tre volte, di seguito, sul foglio degli esercizi copiandolo dalla tessera che le abbiamo dato al momento dell’iscrizione. E mentre me lo fa vedere, lo ripete, il suo nome e cognome. Tre volte. Ha firmato tre volte. Con grafìa incerta e un po’ sgarrupata, ma ci è riuscita. Ha scritto il suo nome copiandolo, per la prima volta. Ha firmato. Ha fatto la sua firma. Sorride come Laura. Proprio come lei. Sorrido anche io, le faccio i complimenti rispondendo “Masha’Allah” che, tradotto terra terra, vuol dire “che figata divina!”. E poi va via, sorridendo, tuffandosi nel buio di San Siro. Sto chiudendo la porta e penso che voglio scrivere di questa cosa. Per non dimenticare. Per non far dimenticare. Una firma sembra poco, ma… Vabbè, non piango perché sono una dura, io. 🙂 Però… Mi si apre il cuore e penso che il tuo nome non lo dimenticherò mai, carissima. Mai.
Rosa Parrella