Che cosa significa insegnare italiano a chi non lo sa?
Una serie di racconti dei nostri volontari prova a spiegarlo.
Il primo è di Sara Pupillo. Buona lettura!
Fa freddo quel sabato mattina. Mi hanno chiesto di sostituire un altro insegnante alla scuola di italiano dove faccio la volontaria e arrivo trafelata perchè è sabato anche per me e avrei preferito restare sotto il piumone. Mi sono lasciata convincere solo perché è una classe di non principianti ed è bello poter andare oltre, per una volta, a dire e ripetere il proprio nome e la nazionalità.
Se piove, in classe si presentano al massimo in due. Se poi nevica, come quel sabato, c’è da aspettarsi il deserto totale. Infatti, per dieci minuti non arriva nessuno. Sfoglio un po’ i libri che ho portato, cancello le lavagne, butto i pennarelli che non scrivono e cinque minuti dopo finalmente fa capolino una donna:
“Posso lasciare bicicletta dentro? Con questa neve…”
Si toglie i guanti e mi porge la mano da stringere:
“Sono Olga.”
Siamo solo io e lei e mi dico che non ha molto senso fare una lezione di grammatica. Ho con me il computer e potremmo vedere un film. Una lezione più leggera sia per me sia per lei.
“Conosci il regista Nanni Moretti?” le chiedo.
Non lo conosce.
“Mi piace guardare film”, aggiunge.
Ho nell’hard disk tutti i film di Moretti, che mi sembrano abbastanza facili da seguire. O forse no, mi rendo conto mentre scorro la lista dei titoli con il mouse. Alla fine scelgo “La stanza del figlio”, così si ride e si piange e non c’è politica.
“Chiedimi se non capisci qualcosa. La storia si svolge nella città di Ancona” è l’ultima frase che le dico.
Guardo il film ma controllo anche lei, se segue gli avvenimenti, se si annoia, se pensa di perdere tempo, magari preferiva fare le preposizioni articolate… E vedo che è assorta nel film e non mi chiede nulla, sorride nelle scene tenere e si commuove nei momenti più toccanti.
Poi quando iniziano i titoli di coda comincia a piangere. E possono farci seguire tutti i corsi di preparazione del mondo ma quando una persona scoppia in lacrime entri comunque nel panico. Conosco questa donna da meno di due ore e non so cosa dirle, per cui resto in silenzio.
“Mi manca mio figlio. Ha 13 anni e vive in Ucraina con suo papà.”
Penso che questa donna usa uno splendido italiano. Ma non è la cosa giusta da dirle, mi rendo conto. Mi rendo anche conto che ha voglia di parlare con qualcuno, anche a me a volte capita e lei forse in Italia non ha nessuno che la ascolti.
“Quando sono arrivata, 6 anni fa, non conoscevo nessuno. Ho fatto viaggio in portabagagli di macchina, nascosta. 11 ore dentro macchina,” continua, sempre singhiozzando. È molto bella, ma non la bellezza fugace e un po’ finta delle modelle dell’est.
“Quanti anni hai?” le chiedo. Non c’entra niente ma magari riesco a distrarla dal pianto.
“42”
“Anche io. E anche a me viene da piangere qualche volta. E poi mi viene un fortissimo mal di testa”, le dico mentre le allungo un pacchetto di fazzoletti.
“Anche a me.”
Aveva ragione quella mia zia abruzzese quando diceva che parlare dei problemi di salute è un grande mezzo di socializzazione.
“E cosa fai quando ti viene mal di testa?” le chiedo.
“Faccio giro in bicicletta. Vedo Milano. Vedo viso di persone. Poi mi calmo.”
Ecco. E io che mi bombardo di Moment.
“Come si chiama tuo figlio?”
“Alexander”
“Wow che nome stupendo! E lui è bello come te?”
Finalmente sorride. Tira fuori dalla borsa il cellulare e mi mostra la foto che ha sullo schermo. È davvero molto bello, e glielo dico.
“Per oggi la lezione è finita, Olga. Grazie.”
“Grazie”, mi risponde, con un sorriso da mamma orgogliosa.
Ogni volta che finisce una lezione io ho imparato qualcosa. Non so cosa, ma qualcosa di certo, anche oggi.