Chiunque mette il naso dentro la sede di Alfabeti, anche solo una volta, si accorge subito che la nostra associazione è quello che si definisce un “porto di mare”.
Decine di persone – insegnanti, studenti, amici – entrano ed escono ogni giorno dalla nostra porta, ognuno con la propria storia, con la propria lingua, con i propri progetti. Qualcuno rimane poche settimane, altri per mesi, qualcun altro per anni, poi decide di seguire altre strade, che lo porteranno a conoscere realtà diverse.
A volte, alcune di queste strade conducono molto lontano: questo è il racconto di una ragazza che ha deciso di fare una scelta particolare. La sua scelta l’ha portata nel continente africano, laddove hanno inizio molte delle storie di vita che poi ritroviamo nelle nostre classi.
Silvia ha fatto la volontaria con noi nel 2011 e nel 2012, poi si è laureata infermiera e, dopo due brevi esperienze precedenti, ha deciso di trasferirsi in Etiopia, nella periferia della capitale Addis Abeba.
Di cosa ti occupi esattamente, Silvia?
Lavoro come infermiera in un centro che offre assistenza a bambini disabili e a giovani sieropositivi. Oltre al centro, c’è anche una clinica gratuita che aiuta le persone della zona che non possono permettersi cure a pagamento. Il centro fa parte di un progetto delle “Missionaries of Charity” le suore di Madre Teresa di Calcutta. I nostri ospiti sono bambini abbandonati e orfani di un’età compresa fra i 4 e i 19 anni.
Sono arrivata in questo centro tramite un’organizzazione italiana che si chiama “Amici del Sidamo”, di cui faccio parte. Qui in Etiopia, ci sono altri 10 volontari di questa associazione (9 italiani e 1 spagnola) che lavorano su 5 progetti. Io sono stata assegnata al centro delle Missionaries of Charity poiché è quello in cui serve di più la mia esperienza professionale, mentre gli altri progetti sono più centrati sull’educazione.
Quale è stata la molla che ti ha spinto a fare questa scelta?
È una domanda che mi fanno spesso. In realtà non c’è stato un momento preciso, non si è “accesa una lampadina” all’improvviso, ma è stata una decisione che ho maturato nel tempo. Già al liceo avevo un forte interesse per l’Africa, infatti il mio primo viaggio qui, risale a quel periodo. Avevo un grande desiderio di conoscere e di capire quella realtà, pensavo di avere qualcosa da imparare dalla capacità di queste persone nell’affrontare problemi tanto difficili.
Quale è stato il tuo primo impatto con la realtà in cui operi?
Ricordo una persona, il primo volontario che ho conosciuto. Mi colpì moltissimo il suo spirito, l’entusiasmo per ciò che faceva. Accanto a questo bel ricordo, però, c’è n’è uno più triste: la paura della gente nei confronti dei disabili. Rammento che al tempo stavamo organizzando per loro uno spettacolo di percussioni che prevedeva la partecipazione dei ragazzi sieropositivi, ma avemmo dei grossissimi problemi perché anch’essi erano molto spaventati dall’incontro con i portatori di handicap. Credo che questo atteggiamento sia legato a fattori culturali e sociali, che considerano l’handicap come uno stigma.
Quali sono le difficoltà maggiori del tuo lavoro?
La carenza di risorse, di mezzi, di personale. Il lavoro è tantissimo e molto spesso siamo costretti a occuparci di cose che non ci competono, per rimediare alle tante mancanze, soprattutto alla scarsità di personale medico.
Oltre a questo, naturalmente, c’è la morte. Anche se qui rappresenta la quotidianità, alla morte di un bambino non ci si abitua mai del tutto. Settimana scorsa ne abbiamo perso uno. Al funerale eravamo in tre: io, una suora e il fisioterapista con cui lavoro… ecco, la solitudine di questi bambini è qualcosa che offende sempre.
Pensando all’Italia e agli italiani, o più in generale all’occidente e agli occidentali, c’è qualcosa che ti fa tristezza o rabbia nel nostro modo di vivere, alla luce della tua esperienza con la realtà africana?
Mi dà fastidio l’abuso della ricchezza, la sua ostentazione, una cultura che, purtroppo, sta prendendo piede anche qui. A volte assume anche delle forme piccole, come la maleducazione nell’uso del cellulare; comportamenti come questi, rivelano il desiderio di adottare un modello di vita che, inevitabilmente, si scontrerà con i valori che ho imparato ad amare in questa gente.
Quello che mi piace di più del vivere qui, è il fatto che le persone conservano una rete di relazioni molto forti; la vita si svolge tutta fuori, per le strade.
Un altro aspetto degli etiopi che mi colpisce, rispetto a noi, è la naturalezza con cui accettano la morte. Direi che hanno con essa un rapporto molto sano. Credo che in parte sia dovuto alla fede, che qui è fortissima.
Io mi immagino (ma magari sbaglio) che una persona che fa il tuo lavoro sia costantemente divisa tra l’impotenza di fronte alle sofferenze che vede e la soddisfazione per il fatto di stare comunque facendo qualcosa di giusto. E’ così, oppure le cose stanno diversamente? Quali emozioni prendono il sopravvento?
Come dicevo prima, di sicuro si fa sentire la frustrazione per il fatto di non poter far le cose bene come si vorrebbe (e come sarebbe necessario) e non manca neppure il sentimento di impotenza di fronte alle situazioni più brutte, ma esiste anche l’aspetto positivo, che compensa il resto: malgrado tutto sto vivendo una vita bella, ricca, la vita che ho scelto di fare.
C’è qualcosa di particolare che ti manca oltre alla tua casa, alla tua famiglia e ai tuoi amici? Anche una cosa piccola: un cibo, un luogo…
Essenzialmente gli affetti. Una birra con gli amici, qualche piatto cucinato da mia madre, le gite in montagna con mio padre, l’aspetto di relazione legato a queste cose.
Cosa mi dici della situazione attuale in Etiopia?
Il paese è in forte sviluppo, si costruiscono palazzi, strade, infrastrutture. I condomini stanno rapidamente prendendo il posto delle baraccopoli. C’è anche corruzione, ma non è estrema.
Anche la popolazione è in grande fermento: in Etiopia convivono diverse etnie, alcune delle quali non sono rappresentate al governo. Questa situazione politica si somma al malcontento legato alla distribuzione della terra, contesa tra popolazione locale e imprenditori stranieri.
Esiste un “carattere nazionale”?
Gli etiopi sono un popolo orgoglioso, fiero, quando li osservo mi trasmettono sempre un gran senso di dignità. Sono anche molto religiosi, qui l’ateismo non è contemplato.
C’è qualcosa che non ti ho chiesto e che vorresti dire a chi leggerà questa intervista?
Credo che ogni esperienza che ho vissuto mi abbia donato qualcosa di grande, sicuramente anche i due anni ad Alfabeti. È stato molto bello e ho imparato tanto, perciò vorrei ringraziare tutti gli allievi, i colleghi e gli amici con cui ho condiviso quel pezzettino di strada.
Moreno