Una scuola di italiano per donne immigrate nata a Milano quasi vent’anni fa: un piccolo locale con un angolo cucina e uno spazio bambini per i figli di allieve spesso giovanissime e senza alcuna rete di sostegno; l’importanza, prima ancora delle regole di grammatica, di un’intesa, di uno scambio tra donne; i corsi di cucina, le gite in città, la ginnastica, ma anche il problema dell’isolamento. Una conversazione tra Lucia Luchina, Valeria Demolli e Bianca Bottero.
Una scuola di italiano per donne immigrate
Dentro al fenomeno dell’immigrazione araba a Milano e ai suoi molteplici problemi resta oscurata la questione di come le donne vivono i vari quartieri o ghetti della città nei quali sono in genere relegate. Luoghi in cui le donne, mogli e madri, sono impegnate, con prole numerosa, in battaglie quotidiane per i problemi della scuola, dei medici, dei vaccini, della spesa quotidiana e della casa, e tutto senza conoscere la lingua!
Il quartiere San Siro a Milano è uno di questi luoghi. È un grande quartiere popolare di più di seimila alloggi, costruito negli anni Trenta per gli operai delle nuove fabbriche cresciute in città, che è diventato dagli anni Ottanta luogo di crescente presenza extracomunitaria, prevalentemente araba, con le prime migrazioni di uomini soli, poi raggiunti dalle donne a formare famiglie. Questo flusso ha negli ultimi decenni iniziato a crescere, con provenienze anche da altri paesi: oggi è presente una multietnicità che non viene solo dall’Africa, ma dall’Asia, dal Sud America e anche dai paesi dell’est Europa. I problemi sociali sono moltissimi, dovuti non solo alla precarietà economica e lavorativa di gran parte dei capifamiglia, ma anche alla piccolezza e scarsa manutenzione delle abitazioni e agli spazi urbani poveri e in gran parte degradati. Sono questi i luoghi dove si svolge esclusivamente la vita delle donne, in particolare quelle di origine araba: sulle quali grava -malgrado spesso la giovanissima età e la mancanza del prezioso sostegno della madre- il compito dell’accudimento dei bambini, della loro cura, del loro inserimento nelle scuole… la preoccupazione di crescerli…
Per questo, in mancanza di qualsiasi altra struttura pubblica, si sono attivate nel quartiere diverse associazioni di volontariato che si impegnano nell’insegnamento gratuito della lingua alle donne. Un impegno che, al di là della sua utilità specifica vale anche a fare emergere -in un contesto istituzionale che pare sordo al problema se non per liberarsene delegandolo- quanto esso possa essere ricco di valori emancipativi e umani.
La prima a essersi interessata al problema è stata la Scuola serale dell’associazione Alfabeti -una Onlus promossa nel 1995 dal partito Rifondazione di zona- che nel 2002, grazie alla sensibilità di una assistente sanitaria e l’appoggio di due insegnanti volontarie, fondò la Scuola Donne di Alfabeti, tenuta al mattino. Ne ripercorriamo brevemente la storia, che fu per il quartiere pionieristica. Ne parlano con Bianca Bottero, Lucia Luchina che ne fu l’ideatrice e Valeria Demolli, che ne divenne la responsabile.
Come è nata l’esigenza di aprire una scuola di italiano per le donne immigrate del quartiere San Siro.
Lucia. Ho lavorato come assistente sanitaria dal 1980 al 2010 presso il Consultorio Pediatrico di via Paravia, 81. Era un servizio preventivo, rivolto ai bambini da zero ai tre anni, per la tutela sanitaria, psicologica e sociale dell’infanzia.
Il consultorio occupava un’ala dell’asilo nido di zona, che era ubicato in adiacenza al grande quartiere popolare di San Siro, un quartiere fortemente degradato dove, a partire dal 1984, l’Amministrazione Comunale iniziò ad assegnare alloggi a extracomunitari con conseguente aumento di nuclei familiari dove forte era la presenza di minori, donne in gravidanza e donne sole capo famiglia. La percentuale di adesione delle famiglie straniere al servizio aumentò di anno in anno e passò dal 15% del 1994 al 39% del 2001; la maggioranza dei bambini era egiziana, seguivano marocchini e tunisini. Dal 1994 al 2002 i bambini arabi seguiti dal servizio sono stati 307.
L’ufficio anagrafe del Comune di Milano trasmetteva settimanalmente a tutti i consultori pediatrici della città gli elenchi dei bambini nati e da questi elenchi estrapolavo i nominativi dei bambini che appartenevano al bacino di utenza del consultorio. Ne seguii circa l’81%, con visite domiciliari, su appuntamento preventivamente concordato, entro il ventesimo giorno dalla nascita.
I temi affrontati con le mamme, in un contesto familiare spesso degradato, riguardavano la salute dei bimbi e i loro bisogni. Le maggiori difficoltà che incontravo erano di tipo linguistico e all’occorrenza cercavo la collaborazione del padre o di parenti che, però, diventavano gli interpreti, i “portatori” dei bisogni di mamme e bimbi, così che, a volte, la loro presenza comprometteva e influenzava l’esito del colloquio. Le mamme erano sempre donne molto giovani, chiuse in casa, in quanto potevano uscire solo se accompagnate, vittime di matrimoni combinati, sposate a cugini di primo e secondo grado, di età superiore alla loro e non consapevoli delle problematiche di tipo sanitario che sarebbero potute insorgere in caso di gravidanza fra consanguinei. La comunicazione con loro era difficilissima, a volte insormontabile: la mia bibbia era un vocabolario di italiano-arabo donatomi da un genitore nel 1999.
Le difficoltà che ogni giorno affrontavo e la totale mancanza di supporto da parte degli organismi istituzionali che avrebbero dovuto fornirci gli strumenti indispensabili alla comunicazione, hanno rafforzato in me il desiderio di aiutare le donne a uscire dal loro isolamento. E il solo modo per farlo, ho pensato, era di dare loro la possibilità di parlare e quindi di apprendere la lingua italiana. Era dunque necessario aprire una scuola non lontana dalla loro abitazione, con orari compatibili con la gestione familiare e con le regole di vita che le donne arabe di religione musulmana dovevano rispettare (vietato frequentare classi miste) e che desse loro la possibilità di portare con sé i bambini. Nel 1999 ho iniziato a raccogliere le firme di tutte le donne interessate alla realizzazione del progetto, ma i moltissimi organismi interpellati hanno posto un veto all’ iniziativa; soltanto Elio, il responsabile della Scuola serale per stranieri dell’Associazione Alfabeti, ha capito e accolto con entusiasmo il mio progetto e ha appoggiato la mia richiesta; è stato stilato un volantino in italiano, arabo, inglese, francese e spagnolo che informava dell’apertura della scuola; è stato distribuito nel consultorio pediatrico, nelle scuole della zona, volantinato nel mercato rionale di via Osoppo; l’ho portato ai pediatri di libera scelta, alle farmacie, al servizio sociale, al consultorio familiare di zona, alle macellerie islamiche e l’ho affisso all’interno di tutti i civici del quartiere popolare. Finalmente il 19 marzo 2002 alle ore 14.00, nel seminterrato della scala G di via Maratta, 3 -sede della Scuola Serale- è iniziata la sperimentazione della scuola delle donne immigrate. L’iniziativa ha riscosso grande successo e le lezioni sono riprese regolarmente l’8 ottobre 2002 alle ore 10,30. Poco tempo dopo è stato attivato un servizio di baby-sitting.
Questa iniziativa è stata dunque possibile per l’impegno soprattutto di Elio, Cristina e Valeria, volontari di Alfabeti ai quali va tutta la mia riconoscenza.
Nel 2011, già pensionata, ho fatto la volontaria per quattro anni; è stata una esperienza molto interessante, ma la cosa che più mi ha coinvolto è stato un gruppo di conversazione durato un anno che ho tenuto nel pomeriggio dove ho affrontato tanti temi. La sintonia e la fiducia che si era creata nel gruppo ha consentito di trattare anche temi delicatissimi come quello dell’infibulazione, portato da una giovane mamma che aveva subìto questa pratica. È stato il momento che più mi ha emozionato.
L’organizzazione della scuola.
Valeria. Ho collaborato nel 2002 alla creazione della Scuola donne, che all’inizio era situata nel seminterrato di una delle corti del quartiere, sede dell’Associazione Alfabeti, e che solo nel 2011 si trasferì in un ex negozio di circa 60 metri quadri, in una via piuttosto disastrata sempre del quartiere, che ci fu affittato da Aler a un canone ridotto ma non proprio irrilevante rispetto alle nostre scarse risorse (noi ci autofinanziamo attraverso le quote versate dai volontari, il cinque per mille dei nostri sostenitori e qualche progetto finanziato da Comune e Regione o da enti privati come Cariplo, la Chiesa valdese e altri). Qui, oltre a un bagnetto e un angolo cucina, c’era anche un piccolo locale di circa 9 metri quadri che adibimmo a spazio bambini, con volontarie a questi dedicate. Le nostre allieve sono infatti quasi tutte giovani, anche molto giovani, con uno o più bambini anche piccolissimi che non possono lasciare a nessuno. Vengono dunque con carrozzine e passeggini che ammucchiano su un lato del locale e affidano -con frequenti interruzioni per pianti, allattamenti o pulizie- nelle mani delle volontarie: il loro attaccamento ai bambini è assoluto e rispondono a ogni loro richiesta. L’insegnamento è, quindi, abbastanza accidentato: dividiamo le donne in gruppi -sono sempre circa una ventina, ma con andamenti molto irregolari- a seconda del livello di conoscenza della lingua: vi sono analfabete anche nella loro lingua madre, altre appena arrivate e a volte acculturate (infermiere, maestre, una era ingegnere, una geografa, una designer) ma adesso tutte casalinghe, senza alcuna possibilità di esercitare un lavoro, sia per la presenza dei figli sempre numerosi e a loro completo carico, sia per la difficoltà a esprimersi in lingua italiana e quindi ad avere relazioni con le altre abitanti del quartiere (a differenza dei mariti che spesso sono da tempo in Italia e, comunque, possono esercitare la lingua sul luogo di lavoro). Poche sono quelle che già parlano, anche se qualcosa capiscono.
Bianca. L’insegnamento alle donne si è rivelato quindi diverso da quello che viene impartito ai giovani nei turni serali, anche se tutti tendiamo a privilegiare i meccanismi della comunicazione all’enunciazione delle regole grammaticali o sintattiche. Per le donne, però, il problema era reso ulteriormente importante, perché i loro continui impegni anche imprevisti impedivano una frequentazione regolare e imponevano quindi una grande duttilità del programma di insegnamento. Da subito dunque il nostro sforzo è stato di cercare una interazione che permettesse di stabilire relazioni nelle quali le difficoltà della lingua non diventassero ulteriore ostacolo alla loro possibilità/necessità di aprirsi, fondando il rapporto su una sorta di intesa tra noi e loro, tra quanto diciamo, facciamo, crediamo noi e quanto dicono, fanno, credono loro; su quali piaceri e quali gusti abbiamo noi e su quali piaceri e gusti hanno loro; su come noi ricordiamo, descriviamo, amiamo il nostro paese, la nostra città, i nostri paesaggi, i nostri genitori, i nostri figli e su come loro amano il loro paese, la loro città, i loro paesaggi, i loro genitori, i loro figli. Nel parlare e far parlare e riflettere anche su questi argomenti si inserisce l’esercizio e l’analisi della lingua che, quindi, alle regole grammaticali antepone la comunicazione e il rapporto, espresso anche dai gesti e dai comportamenti.
Valeria. Naturalmente gli argomenti sono anche quelli del quotidiano: riferiti alla casa, ai bambini, alle cure mediche, alle spese al mercato, alla creazione della carta d’identità… Abbiamo per esempio svolto un corso di cucina, nel quale ognuna di loro ha organizzato un pranzo tipico del proprio paese al quale hanno partecipato anche persone del quartiere… È stato un grande successo che ha rafforzato il senso di protagonismo che noi vogliamo sempre sollecitare…
Bianca. Perché il quartiere è poco coeso, non esiste un senso di comunità… non ci sono rapporti con le abitanti anziane, di italiane giovani non se ne vedono e anche tra le varie etnie non sono facilissimi i rapporti. E nella loro situazione, di sradicamento, tendono a sottovalutare se stesse e -tranne che per il viso, spesso molto bello, al quale dedicano una cura particolare e che ornano con molta attenzione col velo- trascurano persino la cura del loro corpo, affaticato dalle tante gravidanze e dai bimbi piccoli sempre in braccio… Perciò abbiamo anche organizzato, chiedendo un piccolo aiuto al Municipio 7, un corso di ginnastica, cioè di “Parole in movimento”, che in una palestra di una scuola vicina ha svolto una sorta di apprendimento fisico delle parti del corpo nominandole e toccandole; un corso molto bello che però poche alla fine hanno seguito, per ritrosia, per via dei bambini…
Valeria. Hanno avuto invece grande successo le “gite”, prendendo il tram e andando a visitare, “in città”, il Duomo, la Rinascente, il palazzo della Ragione con la mostra del Touring e le fotografie di tutte le città italiane, il Castello Sforzesco, il Parco Sempione; e poi, qui nell’ovest, il Parco delle Cave, il Bosco in città… Hanno portato anche i bambini, è stato molto bello.
Bianca. Sì, perché il fatto di essere sempre chiuse nel quartiere anche a loro sembra alla fine una deprivazione, anche inconscia forse. Poi, diciamolo, il quartiere è veramente tenuto in modo indecente, non solo le case, alcune veramente degradate, ma gli spazi pubblici che sono sporchi e trascuratissimi, invasi dalle macchine senza nessun controllo (una mia allieva mi ha detto: “Qui non sembra di essere in Europa”). Su questo aspetto abbiamo protestato molte volte con l’Amministrazione Comunale e con Aler -che è l’Ente Regionale Pubblico proprietario del quartiere- ma con scarsi risultati. Allora, un giorno, nel 2014, d’accordo col Laboratorio di quartiere, abbiamo organizzato la pulizia della via dove si trova la nostra sede con lo slogan “Facciamo un magia, puliamo la via!”, mobilitando bambini e mamme e con l’aiuto di Amsa… è stato un pomeriggio bellissimo e anche educativo per insegnare la raccolta differenziata. Con l’aiuto del gruppo di giovani dello Spazio di mutuo soccorso che “occupa” alcune palazzine nelle vicinanze, si sono anche fatti degli ingenui murales sui muri scrostati delle case e suonato e giocato al “Mondo” disegnato sul marciapiede. Bisogna anche dire che nel frattempo, nel 2014, è arrivata nel quartiere una postazione del Politecnico, un presidio di giovani docenti e studenti della Facoltà di architettura che hanno pensato di svolgere un’azione di “urbanistica partecipata” nel quartiere. Ora non posso dilungarmi a parlarne, ma per quanto riguarda il rapporto con noi sono stati di grande aiuto e conforto, anche perché erano collocati in un piccolissimo locale, altro ex-negozio sulla nostra stessa via.
Valeria. Nel frattempo sono sorte nel quartiere altre scuole. Nel 2009 l’associazione “Itama” (Italiano per mamme), nel 2011 l’associazione “Mamme a scuola”, nel 2014 “Punto.it” che nasce da una scissione da “Itama”.
I rapporti con le altre scuole.
Valeria. Non abbiamo molti rapporti, anche il volantinaggio e la pubblicizzazione sono svolti in modo indipendente. Certo ci legano obiettivi comuni e in alcune occasioni, su particolari problemi ci confrontiamo, ma abbiamo origini diverse. Le due associazioni, Mamme a scuola e Itama nascono a partire da una sperimentazione che la prof. Maria Paola Colombo Svevo, presidente dell’Associazione Verga, ha condotto nel 2011 in due scuole di Milano con alcune associazioni volontarie che già operavano nei quartieri, seguendo un modello educativo che vedeva nelle madri il ruolo fondamentale per favorire i processi di inserimento delle famiglie immigrate all’interno del tessuto culturale delle società di accoglienza. È un modello che ha radici cristiane ma che è condiviso anche dalla Scuola Donne di Alfabeti malgrado la sua origine laica, che pone la propria attenzione soprattutto all’emancipazione e alla dignità della donna.
Bianca. Sia Itama, costituitasi come Onlus nel 2011, sia Mamme a Scuola, che ha portato la sua presenza nel quartiere costituendosi come Onlus nel 2014, svolgono la loro attività presso le due scuole adiacenti al quartiere San Siro, la Radice, in via Paravia e la Cadorna, che è un Istituto Onnicomprensivo, in via Dolci. Hanno a disposizione belle aule e godono quindi di spazi adeguati sia per l’insegnamento sia per lo “spazio bimbi”, nettamente separato da quello delle madri. Queste possono godere così della necessaria tranquillità per seguire le lezioni e i bimbi possono sviluppare più adeguatamente le loro prime esperienze di distacco dalla mamma (che, sappiamo, ha coi bimbi piccoli una assiduità assoluta) e di rapporti con gli altri bimbi: è una fase delicatissima che è stata descritta in un piccolo libro molto interessante proprio da una delle volontarie di Mas. Vi è infine l’associazione Punto.it, staccatosi da Itama nel 2015, che segue le allieve più avanzate ma non accetta bambini. D’altra parte, anche come spazio per l’insegnamento, è molto meno favorita e deve ogni volta cercare, quasi “elemosinare” (!) qualche spazio agibile nel quartiere.
Come funziona oggi la Scuola Donne di Alfabeti.
Valeria. A fronte dell’enorme bisogno di appoggio così differenziato e profondo delle donne straniere che vivono nel quartiere e dello spreco di tanto capitale umano che le difficoltà di vita loro e dei loro bambini causano all’intera nostra società, la scuola Donne di Alfabeti costituisce ancora, nell’anonimato degli spazi del quartiere, un riferimento prezioso: le donne che frequentano sono nostre amiche. Diciamo sempre che siamo un primo approdo, una sorta di Lampedusa. Sono molte quelle che tornano a trovarci, che magari hanno proseguito il percorso nelle altre scuole e sono riuscite ad arrivare a sostenere il primo o addirittura il secondo livello di esami.
La pandemia
Bianca. La pandemia ci ha costretto a chiudere gli spazi scolastici ricorrendo, ove possibile, a rapporti on line (che funzionano un po’ con le allieve più avanzate, ma sono in generale causa di grandissimo disagio e arretramento nelle competenze). Direi che, con tutto il peso e l’impegno che la pandemia ha rovesciato soprattutto sulle donne, con i figli e spesso anche il marito sempre in casa, il loro studio e l’acculturazione nella lingua italiana sono passati in secondo piano; in alcuni casi l’appoggio delle mamme ai figli impegnati nello studio on line ha costituito un ottimo esercizio.
Certo, anche quando potremo tornare in “classe” avremo il problema che nelle nostre condizioni logistiche sarà difficile tenere le mamme con i bambini piccoli. Sarà un vero peccato. Stiamo pensando di raggiungere quelle che non potranno frequentare riprendendo le lezioni e collegandoci via mail.
Ma ciò che la pandemia ha ulteriormente evidenziato è l’incredibile mancanza di forme istituzionali che rispondano in modo più consapevole e responsabile a questo importantissimo settore di bisogno, al quale suppliscono esclusivamente le iniziative volontarie: una prova di più, molto inquietante, di quanto gli obiettivi di una società equilibrata, garantita da un generale sistema di welfare, che sembravano acquisiti fino alla metà del secolo scorso e fino, direi, agli anni Sessanta, si siano appannati e quasi spariti, con un ricorso a forme di “beneficenza” di sapore ottocentesco: questo è il ruolo che, in un certo senso, lo Stato delega al volontariato, senza peraltro che gli enti locali si preoccupino di agevolarne più di tanto le funzioni. E con questo non voglio assolutamente negare al volontariato l’enorme valore umano che lo contraddistingue, anzi, per la grande dimensione che ha assunto il fenomeno, penso che rappresenti un modo nuovo, più positivo di intendere la nostra esistenza e quasi configuri una nuova forma di welfare.
(a cura di Bianca Bottero)